Albero di Psiche
mercoledì 3 settembre 2014
Rientro dalle vacanze: come affrontarlo al meglio
Per gli adulti, il mese di settembre è tempo di riprendere con la solita routine, fatta di lavoro, impegni e commissioni che durerà tutto l’anno, ma anche per i bambini la fine dell’estate potrebbe essere sinonimo di nuove sfide da affrontare e forse anche di nervosismi tipici del rientro a scuola. E’ l’ansia lo stato emotivo che troviamo più spesso all’inizio di un nuovo cammino. I sintomi si manifestano nella difficoltà di addormentamento e incubi, in disturbi comportamentali di vario genere, nell’irrequietezza e nella continua richiesta di attenzione da parte dei più piccoli. Possono presentarsi, inoltre, sintomi fisici quali mal di testa, nausea, dolori muscolari che possono sembrare una scusa e in realtà si verificano a causa dello stress. In alcuni casi la paura di affrontare la realtà scolastica crea uno stato di malessere generale che deve essere capito: un momento passeggero che può essere risolto con il sostegno dei genitori, oppure, se protratto per più di un mese, può essere il riflesso di situazioni più complesse come un disagio a casa, problemi di apprendimento o situazioni di bullismo. Per questo motivo è importante comprenderne le motivazioni e affrontarle con serietà, anche con l’aiuto di un esperto se necessario.
Se volete essere genitori che supportano i figli durante i primi giorni di scuola dopo la pausa estiva o invernale provate a considerare i seguenti suggerimenti pratici:
1. Gestite le vostre ansie e infondete entusiamo: capita spesso che i genitori dei bambini che per la prima volta intarprendono il loro percorso scolastico all’asilo o alla scuola primaria, vivano in maniera ansiosa il distacco dai propri figli. I bambini “con le antenne” captano questi segnali e vivono loro stessi il malessere dei genitori ma in maniera peggiore perché non sono in grado di comprendere le cause di queste sensazioni. Occorre quindi cercare di avere fiducia nelle proprie capacità e in quelle del bambino, essere calmi e supportavi e sentirsi liberi di parlare delle proprie emozioni condividendole e lasciando spazio per ascoltare i propri figli. Adottate inoltre un atteggiamento che infonda entusiasmo e sottolineate la gioia di rivedere i compagni e la ripresa di attività piacevoli.
2. Partite…per gradi: nessun bambino ama i cambiamenti bruschi, quindi è meglio farli tornare alla loro quotidianità con gradualità. È utile tornare dai luoghi di vacanza qualche giorno prima e, per ripristinare un corretto ciclo “sonno-veglia”, mandarli a dormire mezz’ora prima, svegliandoli, allo stesso modo, mezz’ora prima.
3. Conservate le buone abitudini vacanziere: accendete il meno possibile televisori e computer. Le ore libere vanno sfruttate al massimo per fare qualcosa insieme all’aria aperta: una nuotata in piscina, un giro in bicicletta, una gita…. L’esercizio fisico aumenta i livelli nel sangue delle endorfine, sostanze prodotte dal cervello con proprietà antidepressive ed euforizzanti. Se poi, mamma e papà hanno già ripreso il lavoro, una volta rientrati a casa è importante che facciano qualcosa con i propri figli (una passeggiata, un gioco da tavolo, la lettura di un libro insieme…).
4. Ritrovatevi con gli amici: Subito dopo il rientro a casa, incontrarsi con gli amici con i quali condividere “lo stress da rientro” fa solo bene. Ancora di più, può essere di grande aiuto per un bambino cominciare a frequentare gli amichetti che vedrà, nel giro di pochi giorni, a scuola. Il passaggio dalla spensieratezza della vacanza alla routine della quotidianità sembrerà meno difficile se “condiviso”.
E ora un ultimo consiglio per l’anno scolastico:
Non sovraccaricateli di mille impegni. La ricetta per avere bambini meno ansiosi ed emotivamente meno fragili è semplicissima: meno impegni “utili”, più gioco, più creatività, un po’ di noia e un pizzico di ozio!
E buon rientro a tutti.
lunedì 23 giugno 2014
A PIEDI NUDI. NEL VERDE
Prima di introdurre i bambini al mondo della letteratura, dei numeri, della filosofia e della storia, prima di apprendere l’abilità della scrittura, prima di sviluppare qualsiasi cognizione di educazione e civiltà, prima di tutto questo, ad ogni bambino è stato fatto un dono che è fonte inesauribile di divertimento e istruzione ed è assolutamente gratuito: la Natura.
Spesso però ci dimentichiamo di questo dono prezioso e mettiamo fretta ai nostri figli, li spingiamo a bruciare le tappe nella convinzione che debbano costruirsi una biblioteca interiore di conoscenze pratiche e teoriche non appena mostrano di poterne afferrare i concetti. Li iscriviamo, ancora piccolissimi, a corsi di musica, storia, lingue straniere. Facciamo loro da autisti accompagnandoli a nuoto, a danza e karate. Riempiamo il tempo che resta nel fine settimana con altre attività analoghe: gite allo zoo, ai musei, agli edifici storici, a mostre e rappresentazioni, ma, se da una parte, fare questo è stimolante e sicuramente arricchente, occorre tenere presente che anche le esperienze che i bambini possono fare negli spazi esterni ampliano i loro orizzonti e favoriscono apprendimenti che sono necessari per crescere, socializzare, avere fiducia in se stessi. Per questo è importante che frequentino anche degli spazi diversi da quelli domestici, anche se i genitori troppo ansiosi possono averne paura, perché meno controllabili, ma così facendo, finiscono per trasmettere le loro ansie ai figli, i quali rischiano di crescere timorosi e troppo dipendenti dagli adulti. Molti genitori non considerano che sono assai più pericolose, per la crescita dei loro figli, la sedentarietà o la visione di certi programmi televisivi rispetto ai giochi spontanei all'aperto con i coetanei. Secondo i dati della ricerca “ Lo stile di vita dei bambini e dei ragazzi”, realizzata da Ipsos per Save the children, quasi la metà dei bambini italiani vede la televisione da 1 a 3 ore al giorno, e per l’85% i videogiochi sono l’intrattenimento principale. Così, bisogna puntare sulla qualità e sulla fantasia per sovvertire questa tendenza: l’adulto deve stimolare la curiosità nel bambino, il quale saprà accendersi immediatamente, invece di tenerlo relegato davanti ad infernali macchinette, così che non possa divenire un elemento di disturbo.
C’è una notizia, riguardante il National Trust, un ente di beneficienza del Regno Unito, il quale si occupa di conservazione, tutela dei luoghi storici e spazi verdi, il quale ha lanciato la campagna “ 50 cose da non perdere prima degli undici anni e tre quarti “, pensata per aiutare bimbi e genitori a recuperare il contatto con la Natura. Alcune di queste cose sono: scalare un albero, rotolarsi giù da una collina, costruire una tana, far volare un aquilone e correre sotto la pioggia. Forse nemmeno i genitori stessi hanno fatto tutte queste cose…trovare il tempo per farle, magari insieme ai propri figli, ora, potrebbe essere un’ottima occasione per recuperare il tempo perduto! E poi, del resto, se i bambini hanno bisogno della Natura come maestra, forse noi adulti ne abbiamo altrettanto bisogno per trarne forza e ispirazione. Il tempo nella Natura non dovrebbe essere strutturato, non ve n’è alcun bisogno. Sono ore che trascorrono con facilità per grandi e piccoli. Ci si può organizzare con un libro o un hobby portatile, e passare un pomeriggio all’ombra confortevole di un albero mentre i bambini giocano. Evitiamo lo stress di pianificare attività didattiche, e pregustiamo, invece, la semplice libertà dello stare all’aperto.
Concordo pienamente con le parole della psicologa Anna Oliverio Ferraris, dalla quale ho tratto il titolo dell’articolo, che altro non è che il titolo del suo libro edito da Giunti, quando afferma che “i bambini devono imparare a conoscere prima il mondo reale e solo dopo quello rappresentato”, che in semplici parole si traduce con: meglio due ore all’aria aperta che due ore con il tablet in mano.
Sono stato promosso. Mi regali un telefonino?
Cari mamma e papà,
anche quest’anno la scuola è finita e se sarò promosso vorrei che voi mi regalaste uno smartphone, non un semplice telefonino per chiamare e inviare messaggi, ma uno di quelli che hanno tutti e che ti fanno fare un sacco di cose: video e foto ad alta definizione, hanno il collegamento internet sempre acceso, perciò posso entrare in whatsapp, shazam, instagram, facebook, spotify, e stare a contatto con i miei amici! Senza dimenticarvi che così potreste chiamarmi quando volete, controllare cosa sto facendo e sentirvi così meno in ansia… non è una bellissima idea?
È una fantastica idea caro figliolo, ma quanti anni hai? Sai che ad Aprile, a Caserta, si sono riuniti in un importante convegno, i pediatri della SIPPS (Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale), che hanno sostenuto la necessità di creare delle Linee Guida Ministeriali per limitare il più possibile l’uso dei telefonini ai bambini, evitandone totalmente l’uso prima dei 10 anni e limitandone l’uso dopo tale età? Questo perché gli effetti nocivi per la salute sono sempre più evidenti e alcuni legati agli effetti termici. L’interazione di un campo elettromagnetico con un sistema biologico provoca un aumento della temperatura: quando le esposizioni sono molto intense e prolungate possono superare il meccanismo di termoregolazione portando a morte le cellule.
In Italia abbiamo il primato europeo per il numero di telefonini in Europa e l’età diminuisce sempre di più: a sette anni circa il 18% dei bambini possiede già un cellulare, ma Giuseppe Di Mauro, presidente della SIPPS, ha usato toni duri a Caserta: «I bambini dovrebbero trascorrere gran parte del proprio tempo all’aria aperta. Non conosciamo tutte le conseguenze legate all’uso dei cellulari, ma da un utilizzo eccessivo potrebbero scaturire una perdita di concentrazione e di memoria, oltre a una minore capacità di apprendimento e un aumento dell’aggressività e dei disturbi del sonno. Ritengo che i bambini non debbano usare il telefono cellulare o, se proprio i genitori non possono fare a meno di dare ai propri figli quest’oggetto, mi auguro che venga utilizzato per pochissimo tempo: sono numerosi i ragazzi che, pur stando uno vicino all’altro, non si parlano ma continuano a tenere lo sguardo fisso sul telefonino. Se non mettiamo un freno a questa invasione dei cellulari tra i nostri piccoli, le nuove generazioni andranno sempre più verso l’isolamento».
Il discorso riguarda non solo l’opportunità o meno di dare il cellulare ai bambini sotto i 10 anni, ma anche l’importanza di far prevalere il buon senso anche successivamente: oltre ai rischi (anche soltanto ipotizzati) per la salute, c’è una questione educativa e di sviluppo psichico che non può essere tralasciata. Sono diverse le funzioni psicologiche e sociali che il telefonino di oggi assolve: innanzitutto ha la funzione di regolare la distanza nella comunicazione e nelle relazioni . Attraverso il telefonino, infatti, ci si può avvicinare o allontanare dagli altri: ci si può proteggere dai rischi dell’impatto emotivo diretto, trovando una risposta alle proprie insicurezze e alla paura del rifiuto; ma ci si può altresì mantenere vicini e presenti costantemente alle persone a cui si è legati affettivamente, gestendo l’ansia da separazione e la distanza.
Tutti noi possediamo un telefonino e ne facciamo l’uso che vogliamo (stiamo attenti però a non entrare nella dipendenza da telefonino), ma mentre noi adulti siamo cresciuti in un mondo reale, fatto di carne e di ossa, ma soprattutto di sguardi, dobbiamo fare più attenzione all’uso che ne fanno i ragazzi: l’età evolutiva è il momento dell’apprendimento delle modalità di contatto sociale reale e delle capacità di controllo degli impulsi e delle emozioni.
La comunicazione attraverso il telefonino, potrebbe finire per diventare l’unica capacità di mettersi in relazione e, contemporaneamente, la sua perpetua possibilità di contatto non stimola né la capacità di controllare il rinvio della soddisfazione dei bisogni che si concretizza nell’attesa, né la conseguente creatività che si sviluppa nell’attesa.
In tal modo, il pensiero lascia sempre più spazio all’azione, al prezzo dell’incapacità crescente di reggere la lontananza e il distacco, perdendo di vista che essi non sono esclusivamente pesi da alleviare, ma anche spazi che è possibile colmare coltivando quelle importanti dimensioni psicologiche rappresentate dalla fantasia.
Per invertire questa tendenze bisogna però prendersi la briga di offrire ai ragazzi qualcosa di diverso. Luca avrebbe preferito messaggiare con gli amici su whatsapp piuttosto che vedere “La vita è bella” di Benigni con noi seduto sul divano, ma poi gli è piaciuto tantissimo.
Il telefonino di Federica si è rotto: tre giorni per ripararlo l’hanno preoccupata parecchio, benché avesse messenger e facebook. Ma è sopravvissuta.
martedì 3 giugno 2014
CYBERBULLISMO. Quando la violenza entra nella rete
Amanda, Andrea, Carolina, Megan.
Non sono solo nomi qualunque, che appartengono probabilmente a culture diverse. Dietro a questi semplici nomi ci sono ragazzi veri, in carne ed ossa, che purtroppo non ce l’hanno fatta. Insieme ad altre difficoltà che sicuramente hanno incontrato nella loro vita e hanno fatto credere loro di non avere più futuro, questi adolescenti non hanno, da ultimo, retto all’umiliazione del vedersi derisi, sbeffeggiati e diffamati davanti ad una piazza. Non una piazza pubblica al centro di una città, dove potrebbero assistere forse non più di trenta persone, ma una ben più estesa, dove in migliaia si possono recare contemporaneamente: è la piazza virtuale, quella di Facebook, dei Social Network, di Internet. Quella che consente la visibilità spesso tanto desiderata, a basso costo, ma quando questa visibilità non riflette l’immagine positiva e speciale che vorremmo avere di noi stessi e che soprattutto vorremmo che gli altri avessero di noi, può diventare un luogo di terribile sofferenza. - “Che problema c’è?” - potreste pensare – “Se mi sento offeso e aggredito da persone poco sensibili, mi tolgo per un po’ dalla rete e riprendo la mia vita con le persone vere e reali che mi sono vicine, con la famiglia e le amicizie che mi sono costruito nel tempo!” -
Forse però non per tutti si tratta di una libera scelta.
Per molti ragazzi di oggi, i “nativi digitali”, non c’è una linea di separazione netta tra la vita reale e la vita virtuale, perché sono nati e cresciuti con esse: vita virtuale e reale si mischiano, si contaminano e si integrano, con tutte le potenzialità ma anche i rischi che questo comporta, non da ultimo il Cyberbullismo, termine utilizzato per indicare il fenomeno che avviene quando bambini e/o adolescenti si avvalgono dell’utilizzo di internet, dei telefoni o di altri tipi di tecnologia per maltrattare e molestare ripetutamente i propri coetanei. Non è un fenomeno isolato. Stime recenti del Ministero indicano che uno studente italiano su quattro compie o subisce atti di prevaricazione via web: il 26% dei ragazzi ne è vittima, mentre il 23,5% si definirebbe cyber bullo.
Sono percentuali elevate: questo fenomeno ci riguarda!
Se il ragazzino non si è formato una corazza forte per gestire possibili derisioni iniziali, le sofferenze saranno molto pesanti: è come essere nudi, in mezzo alla folla, non potersi coprire e pensare che gli altri stanno ridendo di noi e si stanno facendo un’idea sbagliata. Il cyber bullo invece agisce secondo meccanismi di disimpegno morale: “L’ho solo insultato, non l’ho mica ucciso, e poi lo fanno tutti!” La vittima che soffre, vede la sua immagine umiliata e pensa che la sua vita sia rovinata per sempre; i bulli che sentono di essere forti prevaricando e umiliando l’altro; i sostenitori del bullo che pensano che non ci sia niente di male, ridono e commentano forse per sentirsi parte del gruppo dei più forti e non rischiare di diventare vittima a loro volta, sono ragazzi che hanno ognuno le proprie fragilità e che forse nella società ai tempi di facebook pensano che in fondo quello che appari è quello che sei.
Ora, se siete ragazzi e usate i social network, tenete presente che davanti a insulti che sentite pesanti, a immagini che non volete che altri pubblichino su di voi, a diffamazioni che sentite dolorose, è bene che non reagiate aggressivamente o al contrario piagnucolando, non farebbe altro che dar modo ai cyber bulli di continuare il loro divertimento, ma interrompete subito il discorso con fermezza dicendo che se continueranno informerete i genitori e la polizia postale…è un modo per non stare al loro gioco!
Se siete genitori e sentite il forte impulso di proibire ai vostri figli l’uso di facebook o internet per la paura che possa succedere, o se vi viene voglia di fare mille domande per cercare di sapere se la cosa riguarda in un modo o nell’altro anche loro, prendete un po’ di tempo, accogliete questa emozione, ma non agitela nell’immediato…non è utile! Fermatevi e pensate, tenendo presente che l’ascolto vero, l’osservazione dei comportamenti e dei sentimenti, la presenza in casa di una guida autorevole che sappia quando dire sì e quando dire no senza sentirsi in colpa per educare a cosa è bene e cosa è male, sono buoni indicatori del fatto che forse questo non accadrà.
Per maggiori informazioni puoi visitare i seguenti siti online:
www.azzurro.it
www.smontailbullo.it
www.garanteprivacy.it
Elena Tironi
Psicologa
sabato 24 maggio 2014
Compiti si'...Compiti no?
È maggio, le giornate si allungano, il sole fortunatamente anche quest’anno ogni tanto compare e viene tanta voglia di uscire di casa, dopo il letargo dell’inverno, per fare un giro in bicicletta, una corsetta al parco e le ore in ufficio o in azienda diventano “lievemente” più difficili da sopportare. Se per molti di noi adulti questa è una realtà, a maggior ragione lo è per i bambini e i ragazzi che magari devono rinunciare alle partitelle a calcio con gli amici per finire i compiti di matematica o per prepararsi all’interrogazione di storia e se poi quest’anno ci sono anche gli esami… Beh, la faccenda di appesantisce ancora di più!
Mi viene naturale invitarvi ad una breve riflessione sull’utilità dei compiti a casa, tema dibattuto da anni e anni, in Italia e non solo, anche per i risvolti che comporta sulla vita familiare. Spesso basta poco per arrivare a urla e pianti. E allora, compiti sì … o compiti no?
Come in tutte le cose è il buon senso a fare la differenza, ma in questo caso è più opportuno parlare di giusto carico dei compiti a casa: gli studi di psicologia cognitiva hanno dimostrato che se è necessario esercitare i meccanismi dell’apprendimento, per stabilizzare e facilitare il recupero delle conoscenze acquisite, superare un certo numero di ore di studio è inutile e rischioso. Ne può derivare infatti un apprendimento di breve durata, apparente, che affatica il sistema cognitivo e lo rende incapace di recepire nuove cose il giorno seguente. Non solo, la motivazione all’impegno e alla competenza, rischiano di lasciare il posto al “fare tanto per fare”, o peggio ancora al fare per paura delle conseguenze. La mole di lavoro assegnato a casa deve essere commisurata all’età e al tempo già dedicato alla scuola.
Una volta condiviso il fatto che i compiti non devono essere troppi ma nemmeno assenti, i motivi per cui fare i compiti a casa è un momento di crescita importante per il bambino possono essere i seguenti:
- I compiti aiutano il bambino a confrontarsi con la dimensione del dovere e della fatica, a reagire alla frustrazione per perseguire con determinazione il proprio obiettivo. A casa, il bimbo può essere più o meno bravo, questo non è il punto essenziale. Quello che conta è la sfida ad andare avanti lo stesso e non mollare.
- Fare i compiti sviluppa la capacità di organizzarsi del bambino e diventare più autonomo;
Certo, non è facile 'convincere' un bambino che i compiti sono utili soprattutto per lui. Sono un obbligo e tolgono tempo al gioco: è sbagliato ostinarsi a dire che i compiti sono qualcosa di divertente. Per i bambini, i compiti sono un dovere e, quindi, noiosi a priori. Si tenga presente che le nuove generazioni vivono con insofferenza la noia e la mancanza di eccitazione, quindi per loro 'rassegnarsi' o capire l'importanza dei compiti a casa è un po’ più difficile rispetto alle generazioni precedenti.
Per evitare o “cercare di evitare” lo stress da compiti a casa, i genitori potrebbero fin dall’ingresso dei propri figli alla scuola primaria, tenere presente alcune semplici abitudini:
1. Quando fare i compiti
Non lasciate al caso lo spazio di tempo dedicato ai compiti. Per i bambini è importante l’organizzazione. All'inizio, è indispensabile essere un po' prescrittivi: se si decide, per esempio, di dedicare ai compiti il sabato mattina, è così, punto e basta, non si deve fare altro. Un approccio del genere, aiuta il figlio a imparare ad autoregolarsi.
2. Dove fare i compiti
Il luogo dove fare i compiti deve favorire la concentrazione dei bambini. Quindi, se i compiti vengono fatti nella cameretta, non ci devono essere in giro giochi, videogiochi, tv , palloni o altre cose che possono distrarre il bambino. Se la cameretta viene condivisa con un fratellino/sorellina o è impossibile fare ordine, forse potrebbe essere il caso di trovare un luogo alternativo. Per esempio, il tavolo della cucina.
3. Un aiuto quando serve
Il genitore che ha più pazienza, si assuma l’incombenza di dare una mano al bambino che chiede aiuto o che non capisce qualcosa. Meglio metterselo bene in testa: rimproveri e urla servono soltanto a stressare il bambino e a minare la fiducia nelle sue capacità. Quello che dovrebbero fare i genitori è esattamente il contrario: dare fiducia e evidenziare i risultati positivi.
4. Cosa fare se sbaglia
Quando il genitore nota un errore, dovrebbe invitare il bambino a rileggere e a capire che cosa ha sbagliato. Inutile invece mandare a scuola il bambino con i compiti perfetti. A volte, i genitori hanno grandi aspettative verso il figlio, e ci tengono che vada a scuola con i compiti ben fatti ed ecco la tentazione di farli al posto dei figli! Questo atteggiamento, però, non aiuta il bimbo a imparare e diventare sempre più autonomo.
5. Controllo o non controllo?
All'inizio del percorso scolastico, è meglio controllare, per esempio, che il figlio si ricordi di fare tutti i compiti (non solo quelli che preferisce!)
Piano piano, il controllo deve diventare sempre meno stretto, il bambino cresce, diventa più responsabile e autonomo e impara anche a gestire la sua vita a scuola. Naturalmente, ogni bambino ha i suoi ritmi, mamma e papà devono rispettarli e capire quando il figlio è pronto a una maggiore autonomia e non ha più bisogno di una costante 'supervisione'.
E se il bambino si lancia in mille scuse e pretesti per evitare i compiti? Questo comportamento potrebbe anche essere un segnale di disagio e non un semplice capriccio. Oltre che parlare con il bambino (o tenendolo sotto osservazione per un po’), potrebbe essere importante confrontarsi e parlare con gli insegnanti, per capire meglio il contesto scolastico e della classe oppure se ci sono problemi di apprendimento.
Concludo invitando genitori e insegnanti a esercitare il principio fondamentale della “carezza educativa”: il riconoscimento dell’impegno e delle competenze acquisite dal bambino ne amplifica la capacità ricettiva e la motivazione alla fatica dell’apprendere. Di fronte a ogni bambino che chiede aiuto, incoraggiarlo a farcela, qualunque sia la difficoltà da affrontare, è il modo migliore per ottenere sempre il meglio da lui!
Elena Tironi
Psicologa
Difficolta' di apprendimento a scuola: il modello di RETE AFFETTIVA
Negli ultimi tempi il termine “dislessia” o la sigla “DSA” (disturbo specifico di apprendimento) hanno acquistato sempre maggiore popolarità all’interno del panorama sociale: ne sono testimonianza articoli di giornale, trasmissioni televisive, riviste specializzate o divulgative; sono aumentate iniziative quali corsi, serate formative e conferenze; sono stati prodotti nuovi strumenti informatici più o meno utili; da ultimo, è stata emanata una vera e propria legge a riguardo: la legge 170 del 2010.
Possiamo in primo luogo definire la dislessia come un disturbo specifico dell’apprendimento caratterizzato da una difficoltà nella naturale acquisizione delle abilità scolastiche. Le difficoltà possono manifestarsi in modo più o meno coinvolgente a carico della lettura, scrittura o calcolo. Sono disturbi specifici perché si manifestano esclusivamente all’interno del dominio delle abilità scolastiche, senza coinvolgere processi di natura intellettiva, sensoriale, affettiva o psicologica.
Per il bambino dislessico è necessario un notevole sforzo per affrontare compiti che dovrebbero avvenire con una certa agilità: la lettura può essere lenta, affaticata,più o meno gravata di errori,spesso talmente impegnativa da impedire di cogliere il significato di quanto ha letto.
Non si può stabilire in base a impressioni personali che un bambino che legge piano, sia realmente dislessico. Numerosi sono i fattori che intervengono ed è necessaria una valutazione specialistica. Chiaramente esistono indizi che meritano di essere approfonditi, ad esempio in età prescolare la presenza di difficoltà fonologiche e meta fonologiche (rime, giochi sui suoni…), ritardata e difficoltosa acquisizione del linguaggio, o l’eccessiva fatica nei primi compiti di lettura proposti a scuola.
Va chiarito che l’obiettivo principale di una valutazione degli apprendimenti è attribuire una cornice di senso alle difficoltà, cercando di capire perché l’apprendimento scolastico sia diventato così faticoso e intermittente. In alcuni casi è anche necessario considerare l’influenza di processi cognitivi e neuropsicologici come il ruolo della memoria,delle competenze linguistiche e percettive.
Sono state emanate precise linee guida (Consensus Conference; Legge 170/10) sia relative all’iter diagnostico, sia relative alle figure professionali che possono gestire la problematica, in particolare neuropsichiatri infantili e psicologi. Una volta definito un quadro diagnostico chiaro, inizia il vero percorso che offre un senso all’intero processo: la presa in carico, all’interno della quale possono essere coinvolte anche altre figure quali logopedisti.
In questo articolo utilizzeremo la definizione di “ presa in carico affettiva” per due motivazioni: da un lato per la necessaria considerazione del bambino nel suo insieme di persona con l’importante rapporto tra affetti e apprendimenti, tra funzionamento cognitivo ed emozioni, difficoltà scolastiche e ferite interiori; dall’altro lato perché è necessario da parte di colui che gestisce il caso (es. psicologo), lavorare con un investimento emotivo importante, non da confondersi con un collusivo coinvolgimento, ma con un prendersi a cuore, nel quale una quota di passione possa dare un valore aggiunto alla presa in carico, un “esserci in più” in situazioni critiche.
La presa in carico ha come obiettivo la costruzione di una rete di persone quali insegnanti, genitori, specialisti e ragazzo compiti, se necessario. Il primo passo consiste nella condivisone del significato della difficoltà del bambino. In secondo luogo viene condiviso un piano di allenamento, un training per le specifiche difficoltà con cui quel tipo di dislessia si manifesta. Vanno poi considerati gli adattamenti scolastici, ovvero quell’insieme di strumenti, procedure, materiali che, senza incidere sul livello di difficoltà o di contenuto del programma, permettano di alleggerire il carico di letto/scrittura .
Vale la pena concludere con una riflessione: software, chiavette, sintesi vocali, tavole pitagoriche, schemi, mappe ecc…, possono acquistare la loro piena valenza in un progetto di senso condiviso e all’interno di una relazione buona, in cui lo strumento fornito non sia percepito come invalidante segnale di una differenza, di un inferiorità, ma come strumento evolutivo per accrescere il proprio potenziale.
Dott.ssa Elena Tironi
Dott. Simone Algisi
Studio Albero di Psiche - Seriate
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