sabato 24 maggio 2014

Compiti si'...Compiti no?

È maggio, le giornate si allungano, il sole fortunatamente anche quest’anno ogni tanto compare e viene tanta voglia di uscire di casa, dopo il letargo dell’inverno, per  fare un giro in bicicletta, una corsetta al parco e le ore in ufficio o in azienda diventano “lievemente” più difficili da sopportare. Se per molti di noi adulti questa è una realtà, a maggior ragione lo è per i bambini e i ragazzi che magari devono rinunciare alle partitelle a calcio con gli amici per finire i compiti di matematica o per prepararsi all’interrogazione di storia e se poi quest’anno ci sono anche gli esami… Beh, la faccenda di appesantisce ancora di più! Mi viene naturale invitarvi ad una breve riflessione sull’utilità dei compiti a casa, tema dibattuto da anni e anni, in Italia e non solo, anche per i risvolti che comporta sulla vita familiare. Spesso basta poco per arrivare a urla e pianti. E allora, compiti sì … o compiti no? Come in tutte le cose è il buon senso a fare la differenza, ma in questo caso è più opportuno parlare di giusto carico dei compiti a casa: gli studi di psicologia cognitiva hanno dimostrato che se è necessario esercitare i meccanismi dell’apprendimento, per stabilizzare e facilitare il recupero delle conoscenze acquisite, superare un certo numero di ore di studio è inutile e rischioso. Ne può derivare infatti un apprendimento di breve durata, apparente, che affatica il sistema cognitivo e lo rende incapace di recepire nuove cose il giorno seguente. Non solo, la motivazione all’impegno e alla competenza, rischiano di lasciare il posto al “fare tanto per fare”, o peggio ancora al fare per paura delle conseguenze. La mole di lavoro assegnato a casa deve essere commisurata all’età e al tempo già dedicato alla scuola. Una volta condiviso il fatto che i compiti non devono essere troppi ma nemmeno assenti, i motivi per cui fare i compiti a casa è un momento di crescita importante per il bambino possono essere i seguenti: - I compiti aiutano il bambino a confrontarsi con la dimensione del dovere e della fatica, a reagire alla frustrazione per perseguire con determinazione il proprio obiettivo. A casa, il bimbo può essere più o meno bravo, questo non è il punto essenziale. Quello che conta è la sfida ad andare avanti lo stesso e non mollare. - Fare i compiti sviluppa la capacità di organizzarsi del bambino e diventare più autonomo; Certo, non è facile 'convincere' un bambino che i compiti sono utili soprattutto per lui. Sono un obbligo e tolgono tempo al gioco: è sbagliato ostinarsi a dire che i compiti sono qualcosa di divertente. Per i bambini, i compiti sono un dovere e, quindi, noiosi a priori. Si tenga presente che le nuove generazioni vivono con insofferenza la noia e la mancanza di eccitazione, quindi per loro 'rassegnarsi' o capire l'importanza dei compiti a casa è un po’ più difficile rispetto alle generazioni precedenti. Per evitare o “cercare di evitare” lo stress da compiti a casa, i genitori potrebbero fin dall’ingresso dei propri figli alla scuola primaria, tenere presente alcune semplici abitudini: 1. Quando fare i compiti Non lasciate al caso lo spazio di tempo dedicato ai compiti. Per i bambini è importante l’organizzazione. All'inizio, è indispensabile essere un po' prescrittivi: se si decide, per esempio, di dedicare ai compiti il sabato mattina, è così, punto e basta, non si deve fare altro. Un approccio del genere, aiuta il figlio a imparare ad autoregolarsi. 2. Dove fare i compiti Il luogo dove fare i compiti deve favorire la concentrazione dei bambini. Quindi, se i compiti vengono fatti nella cameretta, non ci devono essere in giro giochi, videogiochi, tv , palloni o altre cose che possono distrarre il bambino. Se la cameretta viene condivisa con un fratellino/sorellina o è impossibile fare ordine, forse potrebbe essere il caso di trovare un luogo alternativo. Per esempio, il tavolo della cucina. 3. Un aiuto quando serve    Il genitore che ha più pazienza, si assuma l’incombenza di dare una mano al bambino che chiede aiuto o che non capisce qualcosa. Meglio metterselo bene in testa: rimproveri e urla servono soltanto a stressare il bambino e a minare la fiducia nelle sue capacità. Quello che dovrebbero fare i genitori è esattamente il contrario: dare fiducia e evidenziare i risultati positivi.   4. Cosa fare se sbaglia    Quando il genitore nota un errore, dovrebbe invitare il bambino a rileggere e a capire che cosa ha sbagliato. Inutile invece mandare a scuola il bambino con i compiti perfetti. A volte, i genitori hanno grandi aspettative verso il figlio, e ci tengono che vada a scuola con i compiti ben fatti ed ecco la tentazione di farli al posto dei figli! Questo atteggiamento, però, non aiuta il bimbo a imparare e diventare sempre più autonomo.     5. Controllo o non controllo?  All'inizio del percorso scolastico, è meglio controllare, per esempio, che il figlio si ricordi di fare tutti i compiti (non solo quelli che preferisce!) Piano piano, il controllo deve diventare sempre meno stretto, il bambino cresce, diventa più responsabile e autonomo e impara anche a gestire la sua vita a scuola. Naturalmente, ogni bambino ha i suoi ritmi, mamma e papà devono rispettarli e capire quando il figlio è pronto a una maggiore autonomia e non ha più bisogno di una costante 'supervisione'.   E se il bambino si lancia in mille scuse e pretesti per evitare i compiti? Questo comportamento potrebbe anche essere un segnale di disagio e non un semplice capriccio.  Oltre che parlare con il bambino (o tenendolo sotto osservazione per un po’), potrebbe essere importante confrontarsi e parlare con gli insegnanti, per capire meglio il contesto scolastico e della classe oppure se ci sono problemi di apprendimento. Concludo invitando genitori e insegnanti a esercitare il principio fondamentale della “carezza educativa”: il riconoscimento dell’impegno e delle competenze acquisite dal bambino ne amplifica la capacità ricettiva e la motivazione alla fatica dell’apprendere. Di fronte a ogni bambino che chiede aiuto, incoraggiarlo a farcela, qualunque sia la difficoltà da affrontare, è il modo migliore per ottenere sempre il meglio da lui!   Elena Tironi Psicologa

Difficolta' di apprendimento a scuola: il modello di RETE AFFETTIVA

Negli ultimi tempi il termine “dislessia” o la sigla “DSA” (disturbo specifico di apprendimento) hanno acquistato sempre maggiore popolarità all’interno del panorama sociale: ne sono testimonianza articoli di giornale, trasmissioni televisive, riviste specializzate o divulgative; sono aumentate iniziative quali corsi, serate formative e conferenze; sono stati prodotti nuovi strumenti informatici più o meno utili; da ultimo, è stata emanata una vera e propria legge a riguardo: la legge 170 del 2010. Possiamo in primo luogo definire la dislessia come un disturbo specifico dell’apprendimento caratterizzato da una difficoltà nella naturale acquisizione delle abilità scolastiche. Le difficoltà possono manifestarsi in modo più o meno coinvolgente a carico della lettura, scrittura o calcolo. Sono disturbi specifici perché si manifestano esclusivamente all’interno del dominio delle abilità scolastiche, senza coinvolgere processi di natura intellettiva, sensoriale, affettiva o psicologica. Per il bambino dislessico è necessario un notevole  sforzo per affrontare compiti che dovrebbero avvenire con una certa agilità: la lettura può essere lenta, affaticata,più o meno gravata di errori,spesso talmente impegnativa da impedire di cogliere il significato di quanto ha letto. Non si può stabilire in base a impressioni personali che un bambino che legge piano, sia realmente dislessico. Numerosi sono i fattori che intervengono ed è necessaria una valutazione specialistica. Chiaramente esistono indizi che meritano di essere approfonditi, ad esempio in età prescolare la presenza di difficoltà fonologiche  e meta fonologiche (rime, giochi sui suoni…), ritardata e difficoltosa acquisizione del linguaggio, o l’eccessiva fatica nei primi compiti di lettura proposti a scuola. Va chiarito che l’obiettivo principale di una valutazione degli apprendimenti è attribuire una cornice di senso alle difficoltà, cercando di capire perché l’apprendimento scolastico sia diventato così faticoso e intermittente. In alcuni casi è anche necessario considerare l’influenza di processi cognitivi e neuropsicologici come il ruolo della memoria,delle competenze linguistiche e percettive. Sono state emanate precise linee guida (Consensus Conference; Legge 170/10) sia relative all’iter diagnostico, sia relative alle figure professionali che possono gestire la problematica, in particolare neuropsichiatri infantili e psicologi. Una volta definito un quadro diagnostico chiaro, inizia il vero percorso che offre un senso all’intero processo: la presa in carico, all’interno della quale possono essere coinvolte anche altre figure quali logopedisti. In questo articolo utilizzeremo la definizione di “ presa in carico affettiva” per due motivazioni: da un lato per la necessaria considerazione del bambino nel suo insieme di persona con l’importante rapporto tra affetti e apprendimenti, tra funzionamento cognitivo ed emozioni, difficoltà scolastiche e ferite interiori; dall’altro lato perché è necessario da parte di colui che gestisce il caso (es. psicologo), lavorare con un investimento emotivo importante, non da confondersi con un collusivo coinvolgimento, ma con un prendersi a cuore, nel quale una quota di passione possa dare un valore aggiunto alla presa in carico, un “esserci in più” in situazioni critiche. La presa in carico ha come obiettivo la costruzione di una rete di persone quali insegnanti, genitori, specialisti e ragazzo compiti, se necessario. Il primo passo consiste nella condivisone del significato della difficoltà del bambino. In secondo luogo viene condiviso un piano di allenamento, un training per le specifiche difficoltà con cui quel tipo di dislessia si manifesta. Vanno poi considerati gli adattamenti scolastici, ovvero quell’insieme di strumenti, procedure, materiali che, senza incidere sul livello di difficoltà o di contenuto del programma, permettano di alleggerire il carico di letto/scrittura . Vale la pena concludere con una riflessione: software, chiavette, sintesi vocali, tavole pitagoriche, schemi, mappe ecc…, possono acquistare la loro piena valenza in un progetto di senso condiviso e all’interno di una relazione buona,  in cui lo strumento fornito non sia percepito come invalidante segnale di una differenza, di un inferiorità, ma come strumento evolutivo per accrescere il proprio potenziale.   Dott.ssa Elena Tironi Dott. Simone Algisi Studio Albero di Psiche - Seriate